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31/03/13

“Nel colore della vita” di Francesco Varano (appunti tematici sul libro di Enrica Loggi)


La poetessa sin dalle prime poesie costruisce un inno a ciò che è vivente, così riferendosi al grigio delle case, da dove nonostante la difficoltà nasca qualcosa che prima non c’era e da singole parti del corpo in cui risiede la vita, quali le labbra, mentre il vento imbastisce la creatività generatrice dello stesso lavoro poetico, con riferimenti all’importanza degli elementi naturali in alcuni versi in esergo come la foglia in Pasternak e i granai di vento in Arnaut Daniel, e le nuvole in Riccarda Barbieri, portatori di vita e della vita: sembra una liturgia della natura in un suo cerimoniale. Nel verso e nel suo movimento viene riconquistato il proprio nome altrimenti disperso, un “recupero” di una identità in una città in cui c’è il pericolo della solitudine e dell’assenza delle persone. <> (pag.17). Perché la dissipazione del proprio nome? Perché una città in crisi di sentimenti? Perché un caro luogo solitario? Enrica registra sotto forme di affermazione e non di interrogativi, nella sua poesia l’essere. La sua testimonianza dell’essere ci invita a una riflessione su quella cultura urbana in cui i semplici sentimenti del dono sembrano involarsi e nascondersi senza dar conto, tuttavia la solarità si può incontrare sotto forma di qualcosa di vergine o di simulacro, quasi un viatico per continuare a tendere l’amo, cioé per continuare a vivere. <<…e il grigio della città / mi regala la veste di una pianta/ annosa e vergine, e il simulacro/ incontrato per strada che s’illumina/ d’un mazzolino di fiori disfatto>>. Sempre nella cultura della città, il volto di un tu poetico si mimetizza con il colore della sera, nascondendosi, divenendo altro: <<…la sera avanza e passa/ nel colore che cambia le sue luci/ il tuo viso che sbianca per amore.>> . A volte quel tu poetico è avvolto nel pallore dei gesti, altre volte è destinato a incrociare orme fitte su strade e sabbie, quasi a entrare nell’intensità della vita per qualche istante e a percepire la misura dolce della vita nonostante una giovane commedia.(pp:20-21). Contraddizione sì, dunque, ma portatrice di altra linfa vitale.

Dagli elementi naturali segni della vita si può risalire nella poesia di Enrica, a quello principale (che ricorre in diverse poesie) quello del vento, nel suo significato etimologico di anima, e quindi di un racconto poetico in cui l’anima segue un percorso verso l’essere (l’Essere) partendo dall’esser-ci.<.(pag.24). Il percorso dell’anima è rappresentato dall’identità dei corpi con il vento ( confonderci col vento) e dal ritorno a una vita originaria dell’anima stessa in senso platonico, come forma della conoscenza e contemplazione del bene, dalle forme fisiche a quello della buona amministrazione della città e infine all’idea del bene in sé. Nonostante che a volte l’anima resti impigliata nel mondo sensibile, <>(pag.24). Anche in questo tragitto dell’anima sembra esserci una doppia marcia : quella di elevarsi verso il sublime e quella di rimanere nella solitaria landa di qualche luogo sensibile, noto o meno conosciuto, e si vaga anche se poi si è nella luce. Purtroppo si rimane confusi in un pieno indistinto della contraddizione, anche qui.<<…Oggi nel mio pensiero cresce un anno/ una plaga deserta più del vento/ color nulla, vagante nella luce/ di giorni nuovi che conosco/in fila come fiori al lungomare>>(pag.25).

Di contraddizione in contraddizione: perché adesso il tu poetico è un personaggio celeste(pag.28), che tenta di trattenere le parole( la parole), <>(pag.28).Sembra Enrica volesse portarci a una conclusione: - anch’io non ho la possibilità di concludere una mia nuova liturgia della parola poetica e consistente, perché la lingua a cui si attinge non è adatta! Esistenzialmente Enrica ci sollecita a prenderne coscienza, a considerare la possibilità che gli uomini possano avere per entrare nell’essere attraverso la parole, o sostando ai piedi dell’albero delle parole (pag.29). Le parole e il nome sono alla base del linguaggio e della possibilità della comunicazione, per ora sembrano negarsi o negati, in modo irrevocabile. <>(pag.29). Qui il canto poetico si fa oggettivo e storico, perché nell’assenza-crisi del nome c’è una mancanza d’identità della persona e l’uomo precipiti in una storia in cui non ci sono strumenti di decifrazione. <<….dal ciglio alto della collina/ forse un uomo perduto nella storia…>>(pag. 38). O forse motivi della sua consistenza e della sua essenza,che non trova salvezza nemmeno all’interno del rapporto di sensibilità io-tu. <>(pag.44). Forse antichi e attuali amuleti di protezione e di salvataggio, se non di salvezza sono le acque del mare. <> Forse i dubbi sull’identità si placano nell’atteggiamento contemplativo di una natura vista come paesaggio, nel senso romantico humboltiano del termine, come riscatto o elemento di trasformazione del reale, luogo utopico.

Enrica non smentisce questa idea perché nel nominare il mare cavità, subito l’accosta all’attività rigeneratrice, dunque, trasformatrice, dal niente all’essere. Questo atto creativo appartiene anche alla creatura che come individuo si rigenera all’interno degli elementi naturali che amplificano continuamente la loro energia, e in questa loro pienezza si mostrano come nuove potenzialità di forme a cui il soggetto umano attribuisce un significato: allontanare parzialmente il dolore, creando segmenti creativi e di bellezza o creando solidarietà tra gli elementi naturali o facendo emergere la vita al di sopra di ogni altro aspetto. Enrica crede in questo salto utopico.

C’è un’opera del pittore svizzero Arnold Bocklin, che nel 1880 dipinse la prima versione e poi fino al 1886 cinque versioni di L’Isola dei Morti. Si tratta di un quadro in cui due massi di roccia fanno da contorno a un gruppo di pini svettanti alla stessa altezza dei primi. Il tutto a forma di isola e vicino il passaggio di una barca con una figura e una bara. L’imbarcazione è stata ritratta molto ridotta rispetto al resto. Si evince che il tema della vita anzi della virilità creatrice dei pini è ben evidenziato dall’artista. Il paesaggio è posto al di sopra e al di là della morte, in grado di dominarla e di far prevalere il principio di vita. Penso che Enrica si rivolga al paesaggio in questa direzione. Lei è nel pieno della sua attività poetica nel pensarlo come alternanza di pieni e di vuoti, di natura creatrice e dissolvitrice, di grandezza di energia e di annullamento fino alla sparizione di ogni ente di fronte al soggetto stesso che sparisce. La poeta crea un confronto dialettico in cui c’è attrazione e quindi creaturalità, oppure disaffezione e allora sembra affiori il ni-ente, il non-ente, la mancanza dell’essenza dell’essere. Se all’inizio avevo detto trattasi di una poesia dell’essere, ora posso dire delle intermittenze dell’essere, ed è per questo motivo che mi attrae moltissimo la poesia di Enrica Loggi,perché in questo suo poiein lascia spazio alla libertà laica del dubbio, della pluralità, della dialettica razionale e dei sentimenti, anche di quello verso l’ospite divino, che potrebbe essere l’inconscio, o quell’eros , come nel Simposio platonico, predicato da Diotima, come elevazione dalla bellezza degli elementi naturali compresi i corpi belli alla rigenerazione del bene o del sommo bene. Che la fede di Enrica sia una fede laica è testimoniata da una poesia di pag. 47, in cui Autore e Ospite, principi o sostanze materiali sono in stretto riferimento a oggetti già esistenti nella natura naturata, quando per primo dice che l’Autore potrebbe essere il giunco o migliaia di uccelli e di seguito quando conclude che uno dei gradini della scala che sale verso il cielo passerebbe davanti alla porta di casa per poter salutare l’Ospite. <> (pag.47). In questo palpito meraviglioso in cui Enrica vede fluttuare individui, elementi, cose, pallori, campi, malve, semi, baccelli, mi piace immaginarla ancora nel momento in cui con la mente attraversi le distese degli orti, dei giardini, delle campagne e con il pensiero e la parola (poetica) crei, riesca a trarre dal niente di quattro semi la vita o l’albero della vita, come inizio di una aspettativa psichica e intellettuale, e veda le parole ricomporsi nel respiro della natura e quindi nell’alito creaturale per dare vita a quel sogno di unità psichico-somatica, dopo aver visto le parole smorzarsi, spezzarsi e cadere, o la propria caduta nel colore della vita, nonostante l’appoggiarsi alle parole e alla voce dell’altro (pag.69).In questo frangente, la poesia più che denuncia è un farsi una liturgia del riscatto, una brama di alzarsi da sola nella sua corporeità di persona, uscendo dal mutismo e dando alla luce una vita, quella primaria, cioè dell’albero della vita. Dopo un’inchiesta sulla natura e sull’umano, passando attraverso distorsioni , pericoli, dolori a volte molto sensibili della psiche, Enrica Loggi compie un suo percorso affermando con forza i diritti della coscienza e di conseguenza dopo un’autoanalisi poetica i diritti della corporeità e della natura propria. Questo tipo di poesia è necessaria e di conseguenza la poesia di Enrica è essenziale e fondamentale all’interno di una storia dell’individuo e della cultura e afferma quei diritti della coscienza, come fare ciò che si ama e non fare ciò che si odia. Leggendo il libro si incontra questo mondo di Enrica persona acuta, donna sensibilissima e la sua ricca umanità.

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